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Comunicare la morte di un gesuita

Particolare di una lettera in cui il superiore di comunità comunicava al Provinciale il decesso di un gesuita - Archivio Storico - Gesuiti, Provincia Euro-Mediterranea

Quali erano le cause di morte dei gesuiti nel passato? Come si raccontava un decesso? Dove può trovare queste informazioni un ricercatore?

Dedichiamo la puntata di oggi, vista la vicinanza con la ricorrenza dedicata al ricordo dei defunti, proprio ai gesuiti che non ci sono più e alla loro morte.

Quando un ricercatore ricostruisce la biografia di un gesuita, arrivato alla morte, trova spesso solo luogo e data del decesso, grazie al catalogus defunctorum

Talvolta nell’historia domus è presente il necrologio ma raramente fornisce informazioni dettagliate su come si avvenuta la morte. Era malato? Che sintomi aveva? Da quanto durava la malattia? Come ha vissuto le sue ultime ore? Queste domande aprono una finestra sullo studio di malattie e sintomi e sulla loro cura in passato.

Tra i nostri ricercatori ci sono anche studiosi interessati alla storia della medicina e alla storia sociale che indaga anche le condizioni e gli stili di vita. Per questi studiosi, dunque, il solo catalogus defunctorum non è sufficiente per rispondere ai quesiti della propria ricerca.

Fonti per la ricerca

Queste informazioni si trovano in diverse fonti. Nei fascicoli personali, nei diari di casa. Talvolta come nel caso di Lonigo i gesuiti hanno tenuto anche un diario dell’infermeria.

Grazie alle carte del nostro archivio possiamo vedere da vicino, ad esempio, come abbiano reagito i gesuiti nei confronti di un’epidemia.

Comunicare la morte di un gesuita

C’è però un’altra fonte a disposizione dei nostri ricercatori: la corrispondenza. Appena un gesuita spirava, il Superiore della comunità prendeva carta e penna e scriveva al Provinciale per informarlo del decesso; così è avvenuto per p. Paolo Invernizzi, deceduto il 27 gennaio 1830.

Nel nostro Archivio si conserva un corpus di lettere, all’interno del fondo della Provincia Veneto – Milanese, riguardante la morte di molti gesuiti. Si tratta di più di 200 missive, scritte tra 1817 e 1851, destinate a rettori e Provinciale e scritte dai superiori di noviziati, collegi e residenze dove era avvenuto il decesso del loro confratello. Il decesso dei padri era comunicato tempestivamente alla sua Provincia.

Sono frutto di una collazione: in passato sono state estratte dalla corrispondenza, che conteneva lettere di diverse pratiche, per costituire questo corpus.

Le lettere riguardano sia gesuiti anziani, al termine della loro vita ma anche molti giovani studenti, deceduti nei primi anni di formazione religiosa.

Il corpus è stato riordinato ed è stato stilato un elenco nominativo contenente i nomi dei gesuiti defunti e di coloro che firmano le missive con data e luogo della lettera. Siamo dunque in grado di analizzare un campione significativo di lettere sul decesso di centinaia di individui nella prima metà dell’Ottocento.

Sintomi e malattie

I termini utilizzati da chi scrive non sono gli stessi che l’odierna medicina utilizza, in alcuni casi è anche molto difficile capire di che malattia si tratti. 

In una lettera scritta dal Collegio Romano il 5 gennaio 1844 si legge:

ricevo l’avviso della morte del F. Pietro Ricci, coadiutore temporale formato, avvenuta questa mattina nella mentovata Casa un’ora e tre quarti prima del mezzodì. Un vizio organico, di cui eri era affetto, gli cagionò un’idrope, per la quale ebbe a soffrire un vero martirio, per più di due mesi e mezzo.

A volte troviamo una terminologia a noi famigliare, come “febbre”, “cancrena”, “dolori di stomaco”, “flogosi”, “apoplessia” “convulsioni”, “etisia” o “tifo”.

Molti storici, tuttavia, si interrogano su cosa intendessero i medici del passato per “tifo”, forse una malattia diversa rispetto a quella che conosciamo noi.

Altre volte ci sono definizioni che non rientrano nella terminologia dell’odierna medicina: “febbre nosocomiale”, “febbre maligna infiammatoria”, “morbo nero”, “febbre etica”. 

Chi scrive, pur non indugiando in descrizione troppo specifiche, fornisce alcuni dettagli sui sintomi e sul decorso della malattia: “diede replicate volte sangue per bocca”, “fu egli preso da un forte mal di petto, da nausea di cibo, da dolori di capo, da cui seguirono alcuni sputi sanguigni”.

Riportiamo un brano della lettera che descrive la morte di p. Clemente Rossoni, avvenuta a Roma il 3 settembre 1819.

Si mise in letto il dopo pranzo dei 27 agosto prossimo passato con febbre, che dal Medico si credette terzana, e fu curata per alcuni giorni come terzana: ma in seguito diede in tali vaneggiamenti che si accostavano al furore, tanta era la veemenza del male. Si tenne consulta di tre medici, quello del Papa del Re nostro, quello di Casa e si decise essere febbre maligna nervosa. Si curò come tale; ma indarno. Nella settima senza i soliti deliri quietamente spirò munito de’ sacramenti.

Uno stile comune

Le lettere seguono uno stile comune che “uniforma” le morti. Tutti hanno ricevuto in tempo l’estrema unzione, tutti hanno accolto la morte santamente sopportando lunghe agonie, sempre con apostolica rassegnazione. Tutti hanno dato un esempio edificante di sopportazione del dolore. Infine tutti hanno ricevuto l’estrema unzione, alcuni in articulo mortis.

Sicuramente il racconto della morte è mediato dalla necessità di evangelizzare o creare nuove vocazioni. Le lettere infatti erano destinate alla lettura pubblica a mensa, nei noviziati come nei collegi e nelle case di formazione dei gesuiti, sia in provincia che nelle missioni.

La morte era dunque un momento in cui il gesuita forniva un esempio concreto, l’ultimo: come affrontare il passaggio verso l’aldilà.

La comunicazione sul decesso di un gesuita era anche un’occasione per ricordarne le virtù, l’umiltà e la vita spesa per gli altri. Leggiamo il resto della lettera riguardante la morte di p. Clemente Rossoni.

esso fu un religioso osservantissimo, e di esempio a tutta questa comunità. Dipendeva dai cenni del Superiore come un novizio, devoto, docile, affabile, sempre il medesimo; prossimo a far servigi a tutti, umilissimo poi giacché, sebbene sua Maestà lo volesse quasi sempre ai suoi fianchi e lo amasse qual figlio, pure nulla affatto gli si era attaccato di vanagloria o di alterigia.

Subito dopo la morte di un padre o di un fratello, ci si preparava a organizzare il funerale del defunto.

L’uso della fonte

Come abbiamo già detto le lettere sono utili per gli storici della medicina che possono censire i termini utilizzati, approfondire le cure utilizzate all’epoca. Inoltre forniscono informazioni per le biografie di questi padri e fratelli, di cui riusciamo a sapere con precisione non solo il luogo del decesso ma spesso anche l’ora, le modalità, come abbiano vissuto gli ultimi giorni e le ultime ore della loro vita, chi era con loro, talvolta il luogo della sepoltura.

Questa fonte ci racconta anche in che modo la morte venisse raccontata, non solo ai gesuiti ma probabilmente anche tra i laici, poiché si tratta di un linguaggio comune.

Queste lettere rappresentano l’ultima testimonianza della vita terrena di tanti padri e fratelli della Compagnia di Gesù.

Maria Macchi