La vocazione per la missione
La maggior parte degli aspiranti gesuiti desiderava partire per la missione, ma quanti effettivamente sono diventati missionari? Molto pochi, rispetto alle richieste iniziali. Leggiamo insieme alcune storie di vocazione e di “mancata” missione.
Sognando la missione
Apostolini e novizi, quindi ragazzi anche molto giovani, tra i tredici ed i diciotto anni, indirizzavano al Provinciale entusiaste proposte per essere destinati alle missioni.
Le lettere prendevano il nome di “Indipetae”.
Un desiderio condiviso da molti e che accomunava sia gli aspiranti gesuiti dell’Ottocento sia quelli della prima metà del Novecento.
Da dove nasceva questo desiderio? Principalmente dalla lettura delle vite dei Santi, in particolare dei santi gesuiti e dei martiri che erano deceduti nelle missioni, come affermano gli stessi ragazzi scrivendo al Provinciale, in altri casi il desiderio nasce dalla volontà di evangelizzare le popolazioni più lontane non tenendo conto di usi, costumi e delle culture differenti. Influiva su questo anche la propaganda politica, durante il fascismo ad esempio, ma anche le mostre missionarie che presentavano spesso le popolazioni delle missioni come “infedeli”, “senza Dio”, “selvaggi”.
Implicito vi è anche il desiderio di conoscere il mondo, affrontare le stesse difficoltà dei missionari del passato e di effondere il proprio sangue per la Chiesa.
Rispetto a questo alto numero di richieste, solo una piccola percentuale di loro riempirà una valigia con destinazioni lontane come l’Africa, la Cina, l’America del Sud.
Perché la maggior parte dei gesuiti non vede la propria richiesta accolta?
Le richieste di p. Mario Delmirani
Tra le numerose lettere pervenute ai Provinciali, leggiamo oggi quelle del futuro p. Mario Delminari che il 3 dicembre 1946, non a caso il giorno della festa di S. Francesco Saverio missionario gesuita, quando ha ventidue anni, sei dei quali già trascorsi nella Compagnia di Gesù, scrive:
Rev.do Padre, Pax Christi,
dopo aver ripensato con serierà e tranquillità di spiritò al mio desiderio, altre volte espresso, di voler andare in Missione; dopo aver pregato il Signore e la Madonna Santissima di darmi luce e grazia su questo problema tanto importante, credo di poter dire di essere rimasto sempre fermo nella volontà di partire per la Cina, se questa è la volontà di Dio.
Perciò intendo con la presente rinnovare la mia domanda e sollecitare la sua attenzione sulla mia miserabile persona qualora si trattasse sul serio di una eventuale partenza. Nella fiducia di essere esaudito […]
In un’altra lettera allegata e non data, Delmirani afferma di sentire questo desiderio già da tre anni.
Torna sullo stesso tema esattamente un anno dopo, nel dicembre 1947 sempre nella festa di S. Francesco Saverio esprimendo questa volta il proprio desiderio in latino “mea epistula ad te venio renovaturus petitionem proficiscendi in missionem”.
Ancora due anni dopo scrive:
Rev.do Padre Provinciale, Pax Christi,
il ricordo e l’esempio di S. Francesco Saverio, di cui oggi celebriamo la festa, mi hanno confermato ancor una volta nel desiderio di andare in missione. Per questo ho colto l’occasione per rinnovare presso di lei la mia domanda fatta vari anni fa e rinnovata a suo tempo, di partire per le missioni della Cina se così piace al Signore e a Lei sembra opportuno. Conosco le attuali difficili condizioni politiche ma queste non impediscono che poter dare la mia vita per quei luoghi così bisognosi sia la più grande grazia del Signore.
L’ultima richiesta che Delminari affida alla carta, poiché sicuramente ne deve aver parlato anche a voce con i propri superiori ed il Provinciale, è datata ottobre 1950:
“Rev.do padre Provinciale […] le scrivo questa mia per rinnovare ancora una volta la domanda di andare missionario nella nostra missione in Cina. Sarebbe questa per me la grazia più grande dopo quella del Sacerdozio, perciò la domando al Signore prima di tutti e poi a Lei che ne rappresenta la volontà. Intanto, comunque voglia disporre di me la Provvidenza, cercherò di fare sempre e dovunque la volontà di Dio in quel luogo e ufficio che l’obbedienza mi darà. […]
P. Delmirani non solo non vedrà mai la Cina, ma spenderà la sua vita religiosa in diverse residenze, collegi e Seminari italiani dopo una breve parentesi a New York per motivi di studio, morendo nel 2013 a ottantanove anni d’età.
Perché la sua richiesta come quella di molti altri non viene accettata?
I motivi della mancata missione
Sono numerose le ragioni per cui Delmirani e tanti giovani confratelli non sono mai stati destinati alle missioni.
Alcune dipendono dai periodi storici e dalle situazioni politiche, p. Mario sognava la Cina ma lo fa tra 1946 e 1950 gli anni in cui il clero cattolico viene esiliato e perseguitato dalle autorità comuniste cinesi, quindi era decisamente inattuabile un’esperienza missionaria in Cina, per l’impossibilità di entrarvi e sopravvivervi.
I gesuiti esprimevano il desiderio per la missione ma, come scrive lo stesso Delmirani, fanno anche voto di obbedienza, quindi qualsiasi destinazione ricevuta, pur lontana dalle proprie inclinazioni o interessi, deve essere accettata.
Nel Novecento le Province cominciano a fare i conti con il calo delle vocazioni, ancora non così evidente come per la fine del secolo ma comunque già sensibilmente avvertito rispetto al precedente. I provinciali hanno bisogno di gesuiti all’interno della Provincia, per l’apostolato nei collegi, nelle parrocchie, anche per rispondere a nuovi fronti missionari.
L’assistenza spirituale non si rivolge più solo ai fedeli o a gruppi di preghiera ma ai lavoratori e a categorie specifiche come gli operai, professionisti di diversi settori sempre più attirati dal socialismo e dal comunismo.
Inoltre molte ex missioni, nel corso del Novecento, sono diventate vice – province o province autonome, quindi i gesuiti provengono dal proprio territorio e sempre meno si avverte l’esigenza dei missionari non autoctoni. I missionari stranieri infatti dovevano imparare la lingua locale, spesso difficile dovendo apprendere un sistema basato su altre scritture come il cinese, il giapponese, le lingue basate sull’alfabeto cirillico. Tanti missionari europei preferivano imporre il latino o la propria lingua alla popolazione, come avvenuto in Madagascar ad esempio e questo non favoriva un buon rapporto con la popolazione locale.
Gesuiti e religiosi autoctoni potevano invece conoscere lingua, usi e costumi locali e avere un altro approccio.
Ad ognuno il proprio carisma
Il Provinciale verificava anche che il desiderio fosse genuino e non spinto dal mito del martirio e del dare il sangue nella missione che noi oggi definiremmo fanatismo religioso.
Oltre a queste ragioni il Provinciale attraverso colloqui con i formatori e responsabili dei giovani gesuiti ne appurava l’indole, le capacità e decideva di destinarli a determinati incarichi e ruoli sia sulla base delle necessità della propria Provincia, sia in base alle proposte dei confratelli.
P. Delmirani e altri confratelli hanno dunque servito decine di fedeli, studenti, persone in Italia, lasciando comunque il proprio segno, anche se non come missionari, obbedendo a quanto per loro disposto dai propri responsabili.
In fotografia alcuni gesuiti missionari in Brasile.
Maria Macchi