La Congregazione delle Carceri di Termini
In questo approfondimento ci occupiamo della Congregazione alle carceri di Termini; un luogo che, per romani e non, corrisponde alla Stazione centrale della città di Roma, ma qui, molti anni prima della sua costruzione, si trovava un carcere.
Sebbene l’assistenza ai carcerati non sia, storicamente, uno dei principali carismi della Compagnia di Gesù, essa fu comunque assicurata in diverse città, da singoli gesuiti. Ancora oggi ci sono gesuiti che dedicano parte del proprio apostolato ai carcerati: attraverso le confessioni o l’assistenza spirituale prestata all’interno dei luoghi di detenzione.
Il carcere in età moderna
L’assistenza ai carcerati, in Antico Regime, era demandata ad alcune confraternite, congregazioni di laici e religiosi, che avevano il compito di assistere spiritualmente e materialmente i carcerati, portando loro cibo, vestiti e beni d’uso quotidiano. Lo Stato infatti non manteneva direttamente la popolazione carceraria, ma garantiva assistenza in modo indiretto.
Lo Stato Pontificio garantiva sovvenzioni alle confraternite, attraverso specifici motu propri del Pontefice, protezioni cardinalizie, il riconoscimento di iniziative private e la presenza di professionisti incaricati di visitare periodicamente i carcerati e riferire in merito: gli avvocati dei poveri, i custodi, l’avvocato fiscale, procuratori.
Dalle Carceri Nuove al San Michele, dal carcere delle Mantellate alle carceri “Savelli”, era numerosa la popolazione carceraria romana e non era così infrequente vivere per un periodo in carcere, soprattutto per questioni di debiti.
Nella città di Roma è ancora noto il detto secondo il quale, se non si attraversa almeno una volta il gradino che conduce al carcere di Regina Coeli, il carcere che si trova nel centro della città, non ci si può definire romani.
I gesuiti e l’assistenza carceraria
Il caso della congregazione di cui ci occupiamo è però diverso, il sodalizio era infatti formato dagli stessi carcerati assistiti dai gesuiti. Il loro apostolato è raccontato in un diario scritto dal 1857 fino alla Pasqua del 1870. Attraverso alcuni passaggi conosciamo più da vicino questo apostolato “minore” della Compagnia e la realtà carceraria dell’epoca.
I gesuiti che si occupavano dell’assistenza ai carcerati vivevano soprattutto nella casa di esercizi di S. Eusebio, deputata anche a casa per la Terza Probazione.
La congregazione era stata istituita da p. Castaldi e intitolata alla Madonna dell’Addolorata, era ospitata in diverse sale dove si riunivano i congregati e, separatamente, gli aspiranti congregati, esisteva anche un ospedale per i carcerati. La Congregazione era costituita dagli stessi carcerati che potevano fare richiesta di iscrizione.
Oltre alla cappella e ad alcune sale era a loro disposizione un’ulteriore stanza destinata al lavoro ed una biblioteca.
Nel diario più volte il compilatore si raccomanda di visitare le carceri almeno in tre gesuiti, per la quantità di confessioni da dover ascoltare e di essere sempre presenti la domenica, anche per la catechesi dei carcerati. A volte i gesuiti organizzano una messa cantata, durante la quale sono gli stessi congregati ad esibirsi, i padri consegnano loro una piccola merenda.
La fonte
La fonte che ci aiuta a ricostruire l’attività spirituale in carcere è il diario della Congregazione, dove sono contenute alcune lettere, conservato nel Fondo della Provincia Romana insieme ai diari della casa di esercizi di S. Eusebio.
Da una lettera inviata da p. Melandri al Provinciale dell’epoca, p. Ugo Molza, sappiamo che ogni sabato, dopo pranzo, due gesuiti si recavano in carcere per confessare chi avesse voluto farlo, in occasione delle festività religiose erano quattro i gesuiti che svolgevano questo servizio apostolico particolarmente richiesto in occasione del Natale o della Pasqua.
La domenica dopo pranzo arrivavano anche i novizi che aiutavano i padri con la catechesi dei carcerati anche nell’ospedale.
P. Melandri nella lettera al Provinciale scrive: «Vostra Reverenza intende bene che trattandosi d’infelici carcerati bisogna molto compatirli nelle loro miserie e ascoltare molte volte più i loro lamenti che i loro peccati e aiutarli col Crocefisso e per quanto si può anche con mezzi umani».
Terminando la lettera aggiunge «Prego Vostra Reverenza a raccomandare a quelli che andranno alle carceri di usare grande carità paziente, e di non disgustare per quanto si può i custodi.
Il bagno di Castel S. Angelo
Nel nostro archivio si trova anche un altro documento riguardante l’assistenza ai carcerati reclusi a Castel S. Angelo, dove erano stati imprigionati anche alcuni gesuiti nel periodo della soppressione dell’Ordine. Qui i gesuiti assistono alcuni militari reclusi, fin dal 1839, garantendo l’assistenza spirituale e occupandosi delle confessioni dei condannati a morte.
Maria Macchi