I gesuiti e il 1848
Cosa accadde ai gesuiti nel 1848 in Sardegna, a Genova e nelle città dello Stato Pontificio? Questi sono solo alcuni dei possibili casi di studio che possono essere indagati grazie alla documentazione del nostro archivio.
L’anno rivoluzionario
Il detto “è tutto un ‘48” deriva proprio dall’anno rivoluzionario 1848 che ha infiammato tutta l’Europa. Le popolazioni insorgevano chiedendo una costituzione, in molti casi per ottenere l’unità della propria nazione e generalmente per abbattere i regimi oppressivi.
Tumulti e stravolgimenti politici condizionarono anche la vita delle numerose comunità gesuitiche che, in molti casi, furono costrette alla fuga o all’esilio, vedendo espropriati tutti i propri beni. Spesso fu l’ultimo anno di attività di collegi e residenze in molte città.
Un bilancio del 1848: la Provincia Romana
Il 1848 fu un vero e proprio anno nefasto per la Compagnia di Gesù, soprattutto negli Antichi Stati Italiani, causando spesso lacune documentarie nei fondi archivistici di residenze e collegi.
Solo nella Provincia Romana in quell’anno si registrano otto abbandoni di altrettante residenze. Nei fondi delle province Romana, Veneto – Milanese e Torinese si conservano lettere e relazioni che ci aiutano a ripercorrere quelle settimane e quei mesi drammatici anche nel resto della penisola.
In alcuni casi le avvisaglie del clima politico si possono ricercare anche in episodi apparentemente irrilevanti, come quanto accaduto a tre gesuiti la mattina del 26 febbraio 1848 a Gubbio.
Una memoria, conservata nel Fondo della Provincia Romana, ci racconta che quella mattina: “gli eugubini li accompagnavano per un buon tratto verso Perugia con urli, fischi”. Il Vescovo fu costretto a intervenire e scrivere una lettera pubblica ai suoi fedeli, biasimando gli insulti ricevuti dai religiosi.
Proprio in città vicine a Gubbio da lì a poche settimana le insurrezioni avrebbero portato alla fuga di molti gesuiti e religiosi. Fano, Ferrara, Forlì, Loreto ma anche Velletri, Roma, Napoli, sono solo alcune delle città per le quali la documentazione d’archivio testimonia tumulti che abbiano interessato anche i gesuiti, costringendoli ad abbandonare temporaneamente la residenza, talvolta per sempre. Dal diario del collegio di Fermo leggiamo:
23 marzo 1848 alle 3 pomeridiane cacciata dei gesuiti di Fermo e loro deportazione a Macerata dove furono portati dai Civici Fermani armati.
Ovunque un ’48: Sassari
I venti rivoluzionari soffiarono fino in Sardegna, bussando un giorno alle porte del collegio dei gesuiti di Sassari, ma le prime avvisaglie si registrarono alcuni mesi prima. La sera del 13 novembre 1847 P. Paolini, di ritorno dall’Episcopio, viene a sapere da un altro sacerdote:
intesi essersi fatta sulla piazza rimpetto a S. Caterina una cotta di vari giovani della città, che radunatisi insieme, e cavatesi certe coccarde, che ancora non si sapeva cosa significassero, adattatele al petto, incominciarono a cantare un inno in Sardo, fatto apposta da uno di essi per quella circostanza, l’ino era nazionale, la novità di sentimenti e di modi nel cantarlo, attrasse motti curiosi d’attorno, che di semplici spettatori in breve presero parte a quella dimostrazione, quindi cantando s’inoltrarono con la folla cresciuta verso il palazzo del governatore. La sentinella vedendo la cosa insolita voleva opporsi, ma l’opposizione ad una gran moltitudine sarebbe stata non che inutile, forse anche pericolosa, dal che avvertitone il governatore, si fece vedere ed ordinò chela folla si lasciasse avanzare; piacque questo atto di confidenza alla moltitudine, che con grande entusiasmo proruppe in evviva al re, all’Italia, all’indipendenza, alla lega italiana di cui si era spara poco tempo prima la nuova [la notizia] in Sardegna […] passando lungo il nostro Collegio, fecero sentire un replicato evviva a Gioberti […]
Il gesuita racconta poi un altro passaggio quando accaduto il giorno successivo:
Al dopo pranzo di quel dì ebbe luogo in chiesa nostra la solita funzione eucaristica. Quand’ecco al principio del consueto discorso, s’intese uno strepitio ed entrarono molte bandiere, guidate dal Signor Filippo Ponzeveroni, soprannominato Ciceruacchio Sassarese.
P. Paolini e un altro confratello, nelle settimane successive vivono le proteste degli universitari che accolgono i religiosi al grido di “fuori i gesuiti”, decidendo di fuggire ad Alghero. Intanto a Sassari le tensioni aumentavano:
la sera del 23 febbraio vi fu una gran folla attorno al collegio, gridando ad altissime voci che volevano fuori i gesuiti. Il P. Rettore ne prese grandissimo spavento e per suggerimento degli amici, e da quel che pare, anche per consiglio dei superiori della città, si decise di evacuare la casa: fu chiusa la chiesa, e ne furono consegnate le chiavi a due delegati di Monsignor Arcivescovo […] fu chiusa pure la casa e se ne consegnarono le chiavi, al secondo Sindaco, per parte della città; ed al sotto Maggiore Cavalier Ricci per parte del governo; così in un momento furono sospese le funzioni della chiesa, sospeso l’adempimento dei legati, sospesa la celebrazione della messa, come se un interdetto avesse colpita la casa di Dio. Sospeso l’uso dei diritti che avevano tanti alle piazze franche nel convitto, sospese le scuole, sospesa l’amministrazione dell’azienda.
La relazione di p. Paolini è molto lunga e dettagliata, sono circa 18 pagine manoscritte, nello stesso fascicolo si conservano altre memorie su quanto avvenuto ai gesuiti nel 1848.
Il 1848 a Genova
Nelle stesse settimane anche nella residenza di Genova la vita quotidiana della comunità viene sconvolta, ecco il raccolto di quanto avvenuto, riportato nella documentazione archivistica:
Il discacciamento procedette in questa maniera. La sera del 5 marzo, giorno di domenica, si recarono alla nostra casa di Montebello l’avvocato fiscale col suo segretario ed il canonico Fava Intendente dell’economato, i quali intimarono a nome del Governo l’immediata partenza, con la richiesta della consegna di tutti i beni sì mobili che immobili, e non si concedette che una scarsa mezz’ora di tempo per disporsi alla partenza, non ascoltando ragioni di sorta che i nostri loro esposero, specialmente di sapere ove recarsi a passare la notte, se non a mezzo della pubblica strada, ed il Fratel Rubbatino non poté contenersi dal dir loro (vedendo sì barbaro procedere) “anche ai condannati alla forca soglionsi concedere tre giorni di dilazione a noi neanche mezz’ora?”.
Il popolo accorse in folla significandoci col pianto quasi universale il dolore che sentiva in vederci partire. Appena il parroco venne in cognizione di ciò, si recò subito in persona dai nostri e volle somministrar loro l’alloggio e quanto era loro d’uopo, benché si trovasse molto al ristretto pure li aiutò il meglio che poté. I nostri costì erano in numero di 5: 2 padri e 3 fratelli coadiutori. Il P. Paviani procuratore protestò contro l’ingiusta usurpazione de’ nostri beni, appena uscirono di casa i nostri, furono posti i sigilli per ogni parte. Non ebbero però ingiurie personali e le cose si eseguirono con ordine e tranquillità.
La via della fuga
Una volta avvertiti i gesuiti e dato loro il tempo di raccogliere le proprie cose, bisognava allontanarsi dalla residenza che era posta sotto sigilli o presa subito in carico dalle autorità statali.
Cosa sappiamo della via di fuga e dei difficili giorni dell’esilio? Alcuni aspetti possono essere ricostruiti grazie ad altri documenti. Nel fondo della Provincia Torinese si conservano alcune ricevute che ci raccontano del viaggio dei gesuiti in fuga dalla Sardegna.
Si tratta di due ricevute, una del regio Brick goletta “Staffetta”, una del regio Brigantino a palo “Aurora”
La Staffetta aveva trasportato dal 27 marzo 1848 al 5 aprile “diciassette individui della Compagnia di Gesù” imbarcati per ordine del Vice Re, erano state necessarie in tutto 257, 53 lire – non si intende la Lira del Regno d’Italia ancora non in corso – così suddivise: 198,16 versate al momento dell’imbarco, 34,37 una volta a bordo, mentre 25 lire erano il corrispettivo per cuoco e domestico.
Questa ricevuta non ci da ulteriori informazioni, ma il secondo documento ci permette di seguire i gesuiti nel corso del loro viaggio. Il 15 marzo ben 24 gesuiti si imbarcarono da Cagliari sul regio brigantino a palo “Aurora”, il viaggio sarebbe durato fino al 26 dello stesso mese. La documentazione non specifica quale fosse la destinazione, un altro documento specifica “per il viaggio in Terraferma”, ipotizziamo che il porto di destinazione fosse quello di Genova, poiché le ricevute sono state trovate proprio nei faldoni relativi a Genova e anche perché le residenze gesuitiche sarde dipendevano della Provincia Torinese ed il porto di riferimento poteva essere quello di Genova o uno di quelli liguri.
Il secondo documento registra le provviste, i viveri e gli oggetti che i gesuiti riescono a portare con sé e per i quali pagano: carne per arrosto; Butirro; Pane; Carne per lesso; Gardi; Lingue di bue per umido; Strutto; Formaggio piacentino; Uova; Zucchero; Caffè; Patate; Galline; Verdura (spinaci); Un coltello, 2 cucchiai; Pesci; Bacalà; Lardo; Limoni; Bottiglioni; Pane biscotto.
Nell’ultima parte della relazione di p. Paolini è raccontato il suo viaggio, a bordo della bombarda “La Provvidenza” del capitano Marengo, racconta anche un piccolo aneddoto:
una grossa marea non ci lasciava avanzare: qui ci fermammo due giorni e mezzo, la mattina del terzo ci divertimmo con la presa di nacchere, che sono specie di ostriche lunghe quasi un palmo e mezzo: le interiora si mangiano, e fanno una brodaglia gustosissima, la barbetta poi, con la quale si attaccano queste ostriche al fondo del mare, danno una specie di lana, di color d’oro scuro, la quale si fila e serve per fare dei guanti particolari. Questo seno di mare ne abbonda particolarmente, e altrove se ne trovano ben raramente.
Il tessuto di cui parla il gesuita è il bisso, un filato che ormai solo pochissime artigiane e artigiani in Sardegna sono in grado di lavorare. Il gesuita prosegue il suo racconto, riprendiamo dal momento dell’inizio del viaggio:
A bordo del bastimento a vela tutti conoscevano che noi eravamo gesuiti, quantunque fossimo travestiti, in abiti secolari e quantunque quasi tutti fossero genovesi, tuttavia però ci usavano molta cortesia e molto rispetto.
I gesuiti, diretti a Genova, non poterono entrare in città, poiché riconosciuti come membri della Compagnia, per evitare ulteriori disordini furono imbarcati su un vapore diretto a Civitavecchia. Solo al momento dello sbarco vennero a sapere che anche i confratelli di Roma erano tutti dispersi e che anche l’Urbe non era sicura.
Nelle città di Sassari i gesuiti non tornarono più. Altrove alcuni collegi vennero riaperti ma per un periodo non molto lungo, a distanza di poco più di un decennio la risalita dei garibaldini dello Stivale e la successiva proclamazione del Regno d’Italia avrebbero decretato l’incameramento degli immobili di residenze e collegi riaperti dopo il 1848.
Dal ’48 all’Unità d’Italia
Abbiamo precedentemente ricordato la vicenda dei gesuiti di Velletri che furono costretti ad abbandonare la città. Pur trattandosi di fatti avvenuti dieci anni più tardi il 1848 è chiaro che il clima storico politico che si respirava fosse lo stesso a distanza di solo tre anni dall’Unità d’Italia e dodici dalla fine dello Stato Pontificio.
Maria Macchi